sabato 12 maggio 2012

Che fine hanno fatto i piapiesi?

 Irene Grassi


Non so se lo sapete, ma io come primo mestiere ho fatto la programmatrice di sogni. Ho iniziato all'età di otto anni, su Piàpia.
Piapia è il pianeta da cui proveniamo io, mio fratello e due o tre dei nostri amici: lassù, vivevamo in case a forma di animali giganti, dipinte in colori vivaci -la mia era un gattino giallo, e aveva la porta in corrispondenza della bocca. Ognuno di noi aveva un lavoro, che svolgeva nottetempo, o meglio, mentre era notte sulla Terra. Quando i nostri genitori terrestri ci mandavano a dormire, passava a prenderci l'astronave che ci portava ai nostri lavori piapiesi, che erano straordinariamente eccitanti. Io, per l'appunto, programmavo sogni: inventavo una trama, le davo forma, colori e il nonsenso tipico dei sogni, e la inviavo al destinatario dormiente, sulla Terra.
Quando la dissi a mia nonna, questa storia dei bambini piapiesi che lavorano, lei la prese male: credo che si immaginasse uno sfruttamento spietato, tipo fabbriche alla Dickens. Invece no, noi su Piapia ci stavamo bene a lavorare, perché ognuno sceglieva il suo mestiere per passione e vocazione. Non mi ricordo nemmeno se prendevamo soldi.
Cioè, sì, i soldi c'erano, si chiamavano lucchini, ma li ricordo come una cosa assolutamente slegata dal mio lavoro. Forse da qualche parte ho conservato qualche banconota, con sopra scritto un numero e alcune parole che non saprei più tradurre: purtroppo, ho dimenticato tutto il mio piapiese.
Piapia sta appena dopo Plutone, ma in un altro sistema solare, e nessuno l'ha ancora scoperta. La sua città più antica si chiama Kèmerik, dove sono nata io; la città più grande, dove lavoravo e vivevo nella casa a forma di gatto, si chiamava Lìstethen. I miei vicini erano altri bambini piapiesi che stavano in case a forma di cani rossi, o cavalli verdi, o serpenti viola, e facevano lavori bellissimi, ma non me ne ricordo quasi nessuno. Quello che mi ricordo, l'unico, è il pilota di case volanti -perché, giustamente, le case a forma di uccelli volavano. Un mio amico faceva questo lavoro, anche se era un principe. Un principe, come quelli delle fiabe, che però vestiva di viola e non aveva un cavallo, ma un lavoro, come ce l'avevano tutti. Era il mio principe piapiese, e io sapevo che l'avrei sposato. Insieme andavamo ovunque sulla sua casa volante: viaggiavamo anche nel tempo. Una volta mi portò a vedere i dinosauri, solo io e lui.
Piapia era un pianeta popolato di soli bambini, dove gli adulti non potevano entrare, perché avrebbero fatto solo danni. Per esempio ci avrebbero insegnato il rancore, cosa che su Piapia assolutamente non esiste, e se litighi con qualcuno il giorno dopo è di nuovo tuo amico. Poi ci avrebbero mostrato l'invidia, e con essa il desiderio di prevalere, di guadagnare soldi, di avere più cose. E su Piapia non aveva senso, perché tutto poteva appartenerti, tutte le esperienze che volevi fare, tutte le persone che volevi accanto. Ci si stava così bene che, qualche volta, di straforo, io e mio fratello ci facevamo una scappata anche di giorno, quando non ci vedeva nessuno: bastava chiamare l'astronave con un gesto segreto.
Poi è successo che sono andata via di lì, non mi ricordo più quando. Mi ricordo, invece, perché: ero cresciuta, e non volevo più starci. Ognuno se ne va, prima o poi, ma solo qando vuole. E mi ricordo come, cioè nel modo in cui vanno via tutti: dimenticandomi totalmente di Piapia. Faccio fatica, oggi, a ricordarmi com'era fatta. Il mio principe piapiese, anche lui è venuto via; si è sposato con una terrestre che non ha mai voluto credere alla storia del pianeta dei bambini, ed è più contento così. 
E io, siccome avevo un passato da programmatrice di sogni, ho studiato letteratura. Forse il nesso era chiaro solo a me, e adesso sono qui che non so bene come riciclarmi su questo pianeta. Una cosa che mi piace fare, anche se non ho ancora imparato bene, è scrivere, perché è l'unica attività terrestre che mi ricorda il mio primo lavoro. Stare qui mi piace, anche se è molto più complicato, o forse proprio perché è più complicato, perché è stuzzicante, divertente, imprevedibile. A volte è doloroso, quello sì: bisogna farci i conti.
E adesso, mi chiederete, che fine hanno fatto i piapiesi?
Qualcuno ce l'avete accanto, e non si ricorda nemmeno di esserlo.
Qualcuno lo sa, ma fa il vago, sperando che non lo scoprano.
Qualcuno vorrebbe tornare, ma non può, e resta a struggersi di nostalgia.
Qualcuno voleva tornare, e, non potendo, ha cercato di creare sulla Terra un pezzetto di Piapia.
Qualcuno c'è perfino riuscito.
Io ho deciso di provarci.

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